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L’esattezza di Mario Santagostini

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«Pensavo: non amo me stesso, / amo questi anni, / la loro felicità senza soggetto». Così si chiude Io, nel 1970. Premessa, un testo racchiuso in Felicità senza soggetto, del poeta milanese Mario Santagostini, edito da Mondadori.
La poesia di Santagostini afferma le sillabe della premonizione, si concentra nella sua nettezza e attesta la nettezza incontrovertibile di un pulito respiro che, come scrive Roberto Mussapi, deve «secernere, selezionare, tagliare, lavorare, prima che di cesello, di bisturi. Per eccesso di passione, non per vocazione microchirurgica. Santagostini rievoca il suo passato immaginale e quindi esperienziale, evitando di cantarlo, ma, come chi riaccende un vecchio proiettore superotto, ripassandolo su un piccolo schermo. Lo fa scorrere, senza nulla censurare delle emozioni di allora, ma costringendo lo sguardo odierno a trarre le somme. Per lui la poesia è conoscenza, e in questo non è unico, ma credo, e ciò è più inconsueto, che sia anche sapienza. Nel senso della summa del pensiero e della vita mescolati e miracolosamente, e dolorosamente, tragicamente, fusi».
Il segno rabdomante della sua scena fa riaffiorare il tempo del passato, come una sottile macchia o una nebbia memoriale, della Milano delle periferie, delle metropolitane estreme, delle zone afose e umbratili: « Sono tornato a Cinisello, / una domenica afosa. / un motocarro scoperto portava via un cane. / Questa è stata zona operaia» o « Queste erano le mie zone / di allora: viale Sarca, le strade / vicino alla Pirelli, Sesto San Giovanni. / Mi chiedo se nei cortili / c’è sempre uno straccio di bandiera, / o almeno un megafono».
Raccoglie epifanie, le dissemina, le strappa e le abbassa nella percezione temporale che libera la materia sperata e protesa, segnata, appunto, da una disattesa utopia: «E pensavo a un avvenire / senza il lavoro, a quando i corpi / ci sarebbero serviti a poco, quasi a niente».
La declinazione del sogno delinea la sua appartenenza materiale («Sono / arrivato a chiedermi di cosa è fatto / un corpo, se merita / soltanto la vita, o già altro»), scolpisce resurrezioni punteggiate («Parlavamo di merci, / come sempre. E qualcuno si chiedeva / se il loro riciclo / non fosse l’ennesima, / rassegnata forma di resurrezione») o domande sincopate («Ancora adesso, non mi è chiaro / quale disegno stava / dietro all’occupazione delle case / nei primi Settanta. / E a tutte le forme di autoriduzione, / o d’esproprio. Forse, / erano quei piani alti e dalle / pareti appena imbiancate, quelle merci ingloriose / e non pagate, a volere / il comunismo. Più e meglio di noi. / Ricordo le sere quando / la proprietà quasi non esisteva») che conoscono il dolore dell’epoca ma non la rassegnazione, nel filo della perenne trasformazione, che tenta la sottrazione a ogni inquadratura umana reificata: « Eppure, il solo vedere merci / ci metteva euforia / perché erano loro stesse, a essere felici. / A volte, anche nella forma / non esprimevano altro. / Nemmeno l’attesa vile del macero, / della palta-spettacolo che saremo noi e loro. / ma tutto questo quando, / e dove è stato? / Se anche il capitalismo va via, con i suoi segreti…».
L’impeccabilità del crollo disfatto delle illusioni, la sequenza delle contese dell’io diventano la nascita del suo non- soggetto, come l’attraversamento della materia (la sua fonte, la sua ispirazione), poichè essa non ama finire e urla ancora, «Mi sono chiesto se c’è qualcosa / di meglio che essere vivo» oppure «Forse, la materia / non sa ancora dare / il meglio di se stessa: l’infinito. / Non è fatta per questo».
Commenta Davide Rondoni: «Ma un sospetto non abbandona il poeta: ovvero che tutto comunque esista per diventare “io”. Un “io” che sa la propria imperfezione di non poter controllare o detenere il tutto. Che è senza grazia grato […]. Come se appunto la contesa tra essere e non essere dell’io non avesse fine. E la felicità senza soggetto non arrivasse, lasciando, come dice in chiusura, il soggetto, cioè l’uomo realmente esistente qui e ora, abitato da un “malanimo”, uno scontento, stigma di questa opera capace di interpretare il pensiero dominante».
L’aria «carica di ozono» di Santagostini è la ricerca imprendibile che disfa il capolinea in una infinita evocazione, dove «le mimose / sembrano più vive di vespe, / libellule. Che pena, viene / da dire, per la semplicità dell’infinito / quando sente tutta / la sua paura per l’inanimato. / Come aspettasse aiuto».
E le pietre, che forse avranno voce, dispiegano il loro emblema inanimato, la loro spessa e materica maternità: «C’erano delle vanesse / dal volo sghembo e raso dopo due tuoni in fila. / Ho pensato che le pietre / sanno fare a meno della vita. / Mi chiedo fino a quando. / Forse, il mondo esiste solo / per dare loro la parola, un giorno».
L’ispezione meccanica (e meccanizzata) del poeta si appropria del gesto imploso ed esploso di una ricostituzione, di un abbraccio che forma l’anima. L’umano e la macchina si confondono, i loro ruoli e le loro peculiarità sembrano abrasi in un rimpianto lieve: «Ho amato la materia come un mio simile / e continuo a farlo. / Poi, un creare onnivoro / e sfasato mi ha portato qui, dove anche Dio esiste».
Nella sequenza Sironi, il magma cittadino lucida e sperde la mente: « Io raffiguravo gente / che non ha mai amato il corpo. / [...] / Per questo, in certe mie periferie / c’è posto solo per operai / che rimpiangono di non essere / fatti di ferro, o roba / de rottamata. Ecce materia» o ancora, in una estremità dolorosa e nervosa, il fallimento dis-umano della politica: «Il mio sogno era: macchine, / e parassitismo operaio. / Qui, anche la politica ha fallito. / Allora ho dipinto il futuro quando / non ama nessuno. / nemmeno questa città, / dove si sente arrivare il temporale / con giorni d’anticipo / dai nervosismi di vespe, / libellule, di qualche mimosa».
Ed ecco che il radar mentale diventa visione che rincorre il tempo e la sua passata dinamica: Manzoni, Pascoli, i gigli-lampi di Tesla, i sogni di Sironi che abbozzano la loro «semieuforia fatua / già quasi umana» e affermano la non onnipotenza del colore, e infine, l’urlo dei fiori di Van Gogh «Bellissimi, questi fiori. / Certo, una volta la loro forma / diceva altro: / le tensioni mimetiche, / e le tracce di spinte verso una vita / animale. In verità / tutti questi fiori urlavano, / qualche pazzo come me / li ascolta ancora, abusa dei neri / per non sentirli», la vita luminescente e preveggente di Hopper: «Si grida a forme di ipernaturalismo, / in verità qui è il Paradiso, / e uno enfatizza: – come andavano lente, le mie ali. / Un altro: – erano sporche di bitume. / E in alcuni non c’è mai / stata una vita, solo qualcosa / che le assomigliava».
Ma nella pietra scalamitata «c’è chi continua a parlare di miracoli», come una retrospettiva umana che afferma e dà forma al surplus dell’Universo, e poi l’abisso dell’opera, un canzoniere dolente, un lampo che aggancia la vita, come il verso grave del «maratoneta / eterno in viaggio / verso l’io», «Un giorno ci sarà stupore, / o della meravigliata sonnolenza / per ratti, e conigli / che non lasciano mai la vita» o come le libellule che «abitano fosse di calore / o farfalle rimaste in volo / anche dopo morte. / nessuno, forse, le ha mai / viste vivere».
La rassegna viva e ingiallita è connotata da dolci asprezze. L’aria muta dei piccioni che prevedono il lampi e recuperano ciò che sembra scomparso, l’io che sogna qualcosa «di meglio / della materia, della vita. / Ora non sono in grado / d’aspettarmi nulla, l’eterno / poteva essere diverso», percepisce il frammento e la spianata della sua fragilità, inesorabile e franta.
Nell’ultima sequenza di poesie, Postcreatura, Santagostini tocca fratture insanabili tra la memoria di una frangia ideologica indelebile e la trama del qui e ora, nuova linea di “malanimo”: «Dalle ossa, / non capisco se è stato / una tortora caduta / oppure era un coniglio femmina. / Se volava, non volava. / O se un miracolo / ha voluto che fosse tortora / e coniglio, insieme. / Che passasse due vite».
È la lotta eterna tra l’essere e il non essere, tra l’io e il nulla, tra la tensione al vivente e la sua negazione, tra l’affermazione e l’annientamento: «Io credo che per certe specie / la vita è qualcosa / di basso, e ripugnante. / Per altre, nemmeno esiste. / Non saprò mai se per un vespaio, / un volo di libellule / tornerai o sei già tornato / Qui, anche il vero ti evita. / Come se vivesse» o ancora «Qui, c’è chi si chiede ancora come / è stato un corpo / cosa avrebbe fatto per sollevarsi in aria, / se era così importante averlo, / se è stato uno, più d’uno, / nessuno».
Oltre l’umano la vita attende, un tempo secreto, ricordato e perduto, come un lungo verso di una longinqua attesa: «L’aria è povera d’ozono, / buona solo per i grilli. Animali sciatti, e in fuga da tutto. / hanno il loro mondo: / che se lo tengono stretto. / Certo, qui una volta si creava, / poi si è passati al vivere. / Adesso, aspettiamo».

MARIO SANTAGOSTINI, Felicità senza soggetto, Mondadori, p. 120. Euro 17,00

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