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Louis Aragon e l’amore infinito

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“La realtà è l’assenza apparente di contraddizioni. Il meraviglioso è la contraddizione che appare nel reale. L’amore uno stato di confusione del reale e del meraviglioso. In questo stato le contraddizioni dell’essere appaiono come realmente essenziali all’essere. Dove il meraviglioso perde i suoi diritti, comincia l’astratto. Il fantastico, l’aldilà, il sogno, la sopravvivenza, il paradiso, l’inferno, la poesia, sono anch’essi termini che stanno a significare il concreto”

Questo passaggio, tratto da Il paesano di Parigi, del poeta parigino Louis Aragon (1897-1982) affonda nel petto di un movimento, quella surrealista e fantastico, che egli fonda, nel 1924, con André Breton e Philippe Soupalt.

Un intellettuale impegnato, che dopo aver aderito al Partito Comunista francese, pur mantenendo una propria autonomia e critica, sposò la poetessa russa Elsa Triolet, la quale diventerà il centro nevralgico della sua opera, il disarmo d’amore, la destinazione del sangue.

L’amore apre la sua trasfigurazione onirica, supera il limite di un contatto che unisce fisico e metafisico, consacrando lo spasmo del canto all’assoluto: «L’amore non è l’espressione d’un bisogno d’assoluto: è l’assoluto».

Louis Aragon ha offerto al mondo la lacerazione e lo smarrimento di un grido, il timbro sonoro di una spontaneità sofferta e immediata che esclama il suo linguaggio, in un tempo inatteso, in un respiro di corpi all’unisono: «L’amore morbido da letto/ di cui il mio cuore è cuscino di piume/ turba/ Così mollemente le mie membra/ leggermente le mie labbra/ obliquamente i miei occhi/ per falsi cieli/ che la carne e la biancheria/ hanno un identico odore/ per il mio ardore».

La donna è l’avvenire del mondo. Aragon ne afferma la presenza nel mondo, il suo vocativo eterno, il germoglio religioso e il vero della vita, l’oscura luminosa danza del sodalizio, del tutto umano, di un «fuoco di gioia»: «Mia insonnia infinita/ Mia fioritura mia schiarita/ Oh mia ragione oh mia follia/ Mio mese di maggio mia melodia/ Mio incendio mia malia// Mio universo Elsa vita mia».

Il cubismo letterario, la sua “gioiosa distruzione”, come recita il titolo di un profondo saggio di Gabriele Aldo Bertozzi, rivelando il suo prezioso servaggio d’amore, affermano la profondità e lo struggimento di una indefinita sperdutezza: «L’amore di Elsa mi ha sempre portato luce: conoscenza di me stesso e delle condizioni della parola; poiché, nell’amore d’oggi che non appartiene alla preghiera né alla cospirazione, che non si crede sacro ma neppure infelice, che non crede di non essere ricambiato, l’uomo che ama e che vive per quest’amore, per e attraverso questo amore, prova ad ogni istante il valore del linguaggio e di tutte le relazioni umane, in questo dialogo dei giorni che neppure la notte interrompe. È contro questo amore d’oggi che viene ad infrangersi il vascello fantasma di ogni consapevolezza, quel ‘canto interiore’, quella poesia dell’ignoto, quel linguaggio deificato delle tenebre».

Non esistono amori felici: «Non esistono amori che non siano dolore/ Non esistono amori che non strazino/Non esistono amori che non lascino il segno/ E non più che di te l’amor di patria/
Non esistono amori che non si nutrano di pianto/ Non esistono amori felici
Ma è il nostro amore di noi due».

L’amore che incontra il suo limite, la vertigine del viso che tocca la nostalgia, l’abbandono, l’eroismo, il farsi scrivere sul volto del cuore.

Elsa rappresenta l’immaginale figurativo del vertice d’amore, l’estasi di una fessura da cui guardare il tempo del tempio, fuggito e anelato verso l’infinito.

Ma la statura poetica e il dettato poetico di Aragon non sono lo struggimento sentimentale di un’anima sognante, bensì l’incantesimo di una totale e solenne dedizione al vertice dell’umano.

L’abisso, in cui egli guarda, pronuncia il battesimo di un vertice puro di allegria e dolore, attraverso il dettaglio di mani, bocca, corpo, occhi: come attraversare il liminare di una pazza e vitale ispirazione.

Ispirazione che fa i conti con una lunga trepidazione di assedio, di canti e singhiozzi e che ritma il fervido tremore di una presenza.

Tiziana Mian, in una illuminante introduzione alle Poesie d’amore di Louis Aragon, scrive:”La spossante rincorsa mira al grido ultimo (eternato) ma mai definitivo, all’altitudine del canto, all’agognato orgasmo dionisiaco-apollineo con la Donna, con la Musa ormai inscindibili l’una dall’altra”.

Ogni tappa, ogni scoperta dell’altro è la radice dell’io-in-relazione. Ciò che si annida nei suoi versi, subitanei e segreti, porta al territorio della piega della memoria, al suo ritorno, alla scelta del ricordo.

La figuralità di Aragon, ricolma di tendresses e rêveries, pur ispessendosi, nel quotidiano barlume di una consuetudine, ha lo splendore del limite.

Come se mancasse sempre un linguaggio che possa definire lo smacco delle parole che sfuggono, gli istanti che raccolgono la meta umana, la forza dell’Eterno che ama rappresentarsi amando.

Perché la forza dell’amore è una dissotterrata meraviglia di un trasporto infinito e immortale, che si vela, e svela la creatura che lo abita, portando con sé la meraviglia di una ricca beatitudine di perdita e di fede: «Credo in te come al profumo/ Come al cantar d’uccello nelle tenebre/
Credo in te come al mare/ Credo in te come alla rosa schiusa a mezzanotte/ Credo in te nel frastuono e nel silenzio/ Credo in te nel dolore/ Credo in te come alla prova di esistere
Come alla lacerazione dell’addio/ Credo in te più che alla mia stessa ombra/ Credo in te come l’acqua nera dai riflessi d’oro/ Come la polvere al piede nudo/ Credo in te come il deserto alla pioggia/Come la solitudine all’abbraccio/ Come all’orecchio crede il grido».

La sua duttile immaginazione stilistica, celebrata nel sapiente recupero delle tradizioni, specie nelle opere più tarde, se da un lato coinvolge la sua lotta sociale e l’engagement politico-intellettuale, come testimonia anche la sua produzione da romanziere (Il mondo reale, Condanna a morte, Bianca o l’oblio), dall’altro proclama l’altezza di un grido indissolubile e il vigore immediato e fertile di un incendio e di un sussurro.

Nello specchio, «nel pieno della nostra tragedia», egli guarda la sua donna pettinarsi e straziare la sua stessa memoria. In quell’istante, il riflesso del suo incendio germina il momento dell’io e del mondo, come imperversare nell’incavo della pietra, come abitare il segno dell’infinito «che inventa la rosa».

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