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War Poets: splendore e frantumi

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Il fango, le trincee, la morte, i reticolati, il gas, le granate, la fine della gioventù e l’esperienza del limite compongono l’esperienza dei War Poets, ora racchiusa nel volume, curato da Paola Tonussi, per Ares, in cui viene restituito un bagliore come fiore estremo, attraverso racconti, testimonianze, versi del primo grande conflitto del ‘900.

Può la parola dire l’orrore? Non già raccontarlo ma esserne all’altezza? Il dolore muto, l’angustia, il deserto, la tumefazione segreta e la violenza, la guerra come simbolo della vita umana in ogni enigma dicono che solo la poesia può essere qualcosa di imperituro e cavato dall’abisso, perché fa i conti con l’eternità, la sente addosso, anche nella dolenza estrema, nel limite senza respiro e nello scontro:

«Parecchie poesie qui raccolte sono state buttate giù di fretta, sul retro di una busta da lettera, di un messaggio, o inviate a casa con le lettere. Molte non hanno mai visto una revisione finale: trovate e recuperate dopo la morte dell’autore tra i suoi oggetti o nelle tasche della divisa, o ancora spedite  a casa con lo zaino e le altre cose dopo la sua morte» (p.32).

 

Lo smarrimento e la resistenza della parola, spesso nell’opacità fioca di un fiammifero, di una luce piccolissima narrano la compassione, il coraggio e la rabbia, il grido e la visione, fino alle viscere della vita, dove il primo entusiasmo patriottico della Grande Guerra, dove giovani andarono a combattere «consapevoli delle proprie promesse», preda dell’enfasi retorica e poi dell’agguato della distruzione, come dirà Richard Aldington nelle sue frantumazioni di soliloquio o Laurence Binyon che ha raffigurato la folgore dilaniata della distante marea di Ypres:

«Non perché stanchi, / non perché abbiamo paura, / Non perché ci sentiamo soli / Sebbene non siamo mai soli – / Non questo ci distrugge; / Ma ogni colpo e ogni schianto / Di mortaio e di granata, / Ogni crudele sibilo amaro di pallottola / Che strappa il vento come lama, / Ogni ferita sul seno della terra / Di Demetra, nostra Madre, / Ferisce anche noi, / Strazia e lacera la fine trama / Delle nostre fragili anime alate, / E disperde in cenere le ali lucenti / Di Psiche».

Ci sarà Rupert Brooke la cui «inquietudine screzia la sua poesia poesia prebellica, di grande ricerca formale, con il senso della morte, lieve ma costantemente presente, e una stanchezza della routine e delle certezze del «mondo di ieri» che investono di nuova luce anche i sonetti» (Tonussi, p.8)

Il pericolo, gli orizzonti esili, la proiezione simbolica della polvere nascosta fino al sacrificio finale dello sparso rosso vino della giovinezza toccano i testi di Brooke e accompagnano i bracieri e gli appostamenti di Robert Graves che accolgono, come scrive Paola Tonussi, «delusione, cinismo, amarezza, senso di tradimento per l’incoerenza etica di quanto sta vivendo: inizia  ascrivere il terrore lucido, la paura delle trincee. Sconvolto dalla consapevolezza delle migliaia di vite distrutte negli attacchi frontali per guadagnare pochi metri di terreno, come nel bombardamento di Vimy e nella carneficina dell’offensiva della Somme, disperato, getta il nastro della sua Croce al Valore militare nel fiume Mersey» (pp.39.40).

E poi ancora  la terra nuda e l’aria abrasiva nel fango di Julian Grenfell, i bagliori tumefatti e gli strani inferni di Ivor Gurney, gli sfaceli di Thomas Hardy, le deformazioni terragne di Harold Monro «dove la natura abolisce ogni visione», fino alla perdite di Francis Ledwidge o «l’eternità spazzata via», come cacciata dal Paradiso, di Wilfred Owen, che rievoca Orazio e denuncia la condanna della gioventù, nello spavento dei bagliori, calzati di sangue:

«via la visione romantica della natura amica, via lo spettacolo del mondo, lasciate le letture. L’usignolo ketsiano per lui non canta più né l’allodola di Shelley, la notte non splende più nella sua «quieta luce» per il poeta (Alla Poesia)». Invece devastante, assurdo si spalanca «un nuovo cielo» sugli uomini, per sempre «dall’alto Paradiso maledetti e scacciati» (Un nuovo cielo). Bandito dal paradiso-natura, al poeta resta la tragedia: la trincea, l’offensiva senza possibilità di sopravvivenza, nel cielo buio, senza più stelle» (pp.44-45),

Troviamo poi Isaac Rosenberg che dipinge prosodie di fiamma precaria, nella sua elegia perduta e isolata. La notte si sbriciola, il papavero coglie la sua polvere bianca, la vita rinnovata coincide con il tramonto e i corpi sono sommersi nei loro volti sinistri.

Il senso della crisi e il baratro che annichilisce segnano la pagina di Charles Hamilton Sorley, il racconto tumefatto e il sordo realismo di porpora di Siegfried Sassoon, dove la disumanizzata realtà macchinica impone il suo vessillo, fino al rifugio improtetto di luci spente di Philip Edward Thomas compongono gli ultimi poeti di questa raccolta di splendore e frantumi, dove la lesione del tempo diventa respiro franto e universale e le cose sono piene di lacrime.