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I luoghi persi di Umberto Piersanti: la soglia della memoria

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La ripubblicazione, a ventotto anni, de I luoghi persi di Umberto Piersanti, presso Crocetti, ripropone la disposizione di un confine, in cui ripercorrere lo stupore e la magia dell’incanto adolescente, l’erbario fantastico (spini bianchi, favagelli, gerani dei boschi, veroniche azzurre, angeliche di prati, gladioli), l’improvviso sangue dell’appartenenza.

Roberto Galaverni, nell’introduzione, afferma:

«[…] l’immagine dei luoghi persi esprime fulmineamente i termini e il tono, diciamo pure le coordinate fondamentali di questo luogo e di questa patria, che il poeta ha potuto fare propri […] nel momento stesso in cui ha dovuto prendere atto della propria perdita. […] E però una poetica che sta nella cosa, una poesia incarnata. […] Questa poesia da una parte racconta dell’aspirazione del poeta verso una specie di patria edenica, di paradiso tutto terrestre, di luogo protettivo e, detto nel senso più pieno, materno; un luogo […] di percezioni piene, di estasi sensibili, d’integrità e di perfezione, lì dove non ci sono più angosce e paure e solitudine, dove non c’è il tempo che scorre, che consuma, che porta via i bei momenti, gli amori, le persone e le cose che importano, e noi con loro».[1]

Qui Piersanti tocca la memoria con la mani e la sua perdita, il respiro franto che si consuma in fuga, l’altrove, il trauma, il piano-sequenza delle interruzioni, dove la sua Heimat fonda l’essere e la dimensione del vivente:

«ora il cielo che tocca è spesso vetro / lieve traspare l’ombra quando cammina / pendono fitti gli astri come ciliegie / quando maggio le sparge per i rami / sali tre passi ancora, vieni da noi – lo lusinga il folletto coi sonagli – / qui la pioggia non batte, si ferma il tempo / e la morte s’è persa che fuggivi / è stato il suo ribrezzo che lo porta».

Come scrisse Carlo Bo nella quarta di copertina del libro:

«Umberto Piersanti canta nei Luoghi persi le sue Georgiche. Georgiche di natura familiare dove alcune figure lo costringono ad una netta e decisa correzione di rotta, per cui la natura viene sostituita dalla memoria e nella memoria compie una seconda operazione di metamorfosi così che gli umili oggetti della campagna assumono il rilievo e la responsabilità dei sentimenti. Questo ritorno alle origini, consacrato soprattutto alla memoria della nonna, avviene nella maniera più semplice o in un contesto che non si fa mai favola, ma è presenza, passione e carica vitale. Da un certo punto di vista la memoria risuscitata s’identifica nel presente e nell’immediato, sicché il poeta salda in un’unica vocazione l’emblema del suo passato familiare con la somma delle sue esperienza, a cominciare da quella più costante e ambiziosa: la poesia. In conclusione, Piersanti riscopre nelle pascoliane Cesane il mondo intero e compatto dell’anima poetica».[2]

Il respiro-riparo delle cose entra in un territorio di vitalità raffigurativa, custodisce i detriti della memoria in una risacca vivente che è battesimo del mondo, figura, luogo di sperdutezza e incanto (le colline delle Cesane, appunto), punto di sguardo e di amore in cui la realtà, la bellezza, il tempo fecondo della datità si fa struggimento, perdita, cara rievocazione, immersione e comunione con la natura.

È la sua forza: l’incanto sublime delle soglie, il trapasso umbratile della fugacità, la piana memoriale del contatto, lo sgomento del tremore e l’ampio movimento dell’essere.

«fino a dicembre resta il ciclamino / sotto le querce gialle e il pungitopo / in questa antica selva dove siamo / non la raggiunge il fumo delle case / oltre il cerchio perfetto che ci serra / scendono i solchi, gli orti e le verdure / resta – t’ho detto – ancora qui, tra i rami / guarda nel tronco rotto l’acqua scura / lago con i suoi legni andati a fondo / ora che le tempeste son cessate / quieto riluce nella selva intatta / ah! Non scendere più nelle radure / e attendere poi quieti anche la sera / sui palazzi barocchi il giorno dopo / s’era slargato il sole mentre scende».

La chiarità di Piersanti è gonfia di attesa e ferita, genesi archetipica e salvazione del luogo perduto, l’eliso dell’esilio dissolto, laddove il tempio della finitudine si rende trasparente («oggi m’inquieta il tempo che m’attende / le sue opere e i giorni che non vissi / che non conosco e trovo per strada / di questa età di mezzo già sgomenta / che senza consultarmi mutò il corso / questa vicenda lunga come la vita / forse cambia chi viene e non conosco / io nell’attesa sono come sempre / in giro sui miei colli nella cerchia / e poi vado lontano e qui ritorno»), si porge con un lato fecondo che tenta di fermare il tempo e rimane come un fulcro trascendente e fedele, ampliando i ritorni, spogliando le promesse di luce e ritornando in stanze antiche e in frammenti di poema:

«scorre la piana svelta dietro il vento / la brina trama l’aria coi rami spogli / s’alzano nelle luci radi corvi / giunge il gabbiano a branchi, li sopravanza / resta degli altri solo qualche macchia / nera s’abbassa e goffa sotto il greto / trascorre la mia vita in viaggi fitti / non so se li dirada questa volta / torno alla mia radura nelle pause / quasi non la ritrovo che s’addensa / nera la nube intorno e la ricopre».

Immaginare il sogno e la speranza, il dramma della libertà, l’incanto numinoso del paesaggio non è appena una trama di idillio ma è un repertorio di infanzia e di favola, consegnato per intesserlo di nuovo, riappropriarsene, incendiarlo di vita e splendore stupito.

Certo vi è disorientamento, nascita insonne, solitudine, riecheggiamenti leopardiani e pascoliani, ma il cuore vero della sua poesia è questo abbandono alla propria genesi, all’origine sofferta del reale («sento il trapasso lungo la ferita / del mio tempo più amato che s’invola»), alla simbolizzazione interiore, alla «escursione esterna», come ha affermato Ezio Settembri, nel suo bellissimo saggio, Il mito ritrovato, pubblicato nel 2021, aggiungendo che:

«Evitato il rischio del quadretto idillico (riguardo il Nostro, l’assenza, la nostalgia, l’ossessione dell’abbandono sono elementi fondativi della poetica piersantiana). […] Riconciliazione, non idillio, perché la lingua aderisce a una natura che può spesso ferire, oltre ogni relazione artificiosa e pacificata: […] Piersanti si dispone a guardare la natura come se la vedesse per la prima volta, ecco perché si volge al piccolo, al particolare, con stupore e infantile incantagione».[3]

«penso è la stessa estate non finita / sono i giorni d’agosto e la calura / donna e t’attendo ora mentre scrivo / e so ch’aspetti un figlio, che aspettiamo / sempre a quel monte penso, agli asfodeli / a quella primavera che tardava, dove non c’è ritorno / ch’è finita / di quest’ultima estate che perdura / scorrono in quadri fissi le memorie / nella torre a Verucchio sopra i monti / alta pende sul buio fino alle luci / sneti che odora l’assenzio incenerito / e sciabordava il mare sotto i massi / quando la luna lenta ci s’alzava / cessa a settembre il tempo che non turba / hai la mano intrecciata al mio dolore / giunge la tenerezza tanto chiara / e ci accompagna in Umbria tra le rupi / l’amore dappertutto nei palazzi / i vicoli, la quercia che declina / sempre dovunque tenero e ostinato / ma mi tremava il cuore spaurito / come quel filo d’erba pencolare / donna sulla tua veste e la tua vita / così docile e quieto senza il grumo / che m’ha fatto nel cielo il sole nero».

I volti materni precedono il tempo, ricompongono dimore e il tempo differente, il travaglio del dolore che decifra e scioglie gli incanti. Anche negli ultimi dodici inediti, la lenta incertezza, il ricordo come carezza e preludio d’amore, i fiori ignoti, la smisurata pienezza delle Cesane aprono il sipario dei nidi giovani, lasciando intatta una memoria vergine, quasi sillabata, non toccata e mai sporcata dalla frattura di ogni illusione o vertigine.

 

[1] Galaverni R., Introduzione, in Piersanti U., cit., pp.5-6.

[2] Piersanti U., I luoghi persi, Einaudi, Torino 1994, quarta di copertina.

[3] Settembri E., Il mito ritrovato. La poesia di Umberto Piersanti, Edizioni Industria e Letteratura, 2021, pp.79-80.

 

Piersanti U., I luoghi persi, con introduzione di Roberto Galaverni, con inediti, Crocetti, Milano 2022, pp.144, Euro 14.

 

Piersanti U., I luoghi persi, con introduzione di Roberto Galaverni, con inediti, Crocetti, Milano 2022.

-          I luoghi persi, Einaudi, Torino 1994.

Settembri E., Il mito ritrovato. La poesia di Umberto Piersanti, Edizioni Industria e Letteratura, 2021.