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Il paesaggio liminale: Marion Poschmann

 

 

 

 

 

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Marion Poschmann (1969), con Paesaggi in prestito. Poesie didascaliche ed elegie[1], edito da Del Vecchio, con la cura di Paola Del Zoppo, pone al centro un rapporto, come scrive Roberto Galaverni,

 

«di per sé contraddittorio e di conseguenza tutt’altro che pacificato, tra natura e artificio, emozione e comprensione, essere e immagine, vita e forma. Ovviamente, si tratta di un discorso sulla parola poetica: la tanto bistrattata medusa come uno di quegli animali o figure ambivalenti che i poeti prediligono per parlare dello stato proteiforme e in definitiva imprendibile della poesia».[2]

 

Partendo dalla immaginazione kantiana, Marion Poschmann dispiega la vitalità della congiunzione tra impressione e immagine.

La liminale convergenza della parola poetica, come testimonia la lectio magistralis Animale araldico: medusa, tenuta in occasione del premio Ceppo, è un’apparente dissolvenza. Il residuo scomposto che ha che fare con «sguardi e specchi, opacità, rotture, con il procedimento visivo, dell’affidabilità della percezione e della possibilità del riconoscimento[3]», il vortice puro della trasparenza, la grazia ambivalente dispongono imprendibile inafferrabilità, vaghezza oscura, vertigine umbratile.

Il dualismo tra visibile e invisibile, tra sublimità di fondo ed emersione illumina il senso della materia vivente della poesia. È il suo gesto ultimo che tenta di riportare ogni frangia possibile, ogni immagine inquietante e vitale della medusa, per dare giustizia a ciò che non muore, per lasciare un tempo intatto di interezza: «La storia della Medusa è una storia di immagini e visione. C’è la condizione di indeterminatezza della medusa, l’immagine che non può essere afferrata, e c’è lo sguardo pietrificante di Medusa, il lato del potere. C’è anche lo sguardo penetrante della ragione, che illumina il buio e determina le cose».

Gli interrogativi, dunque, posti da Marion Poschmann sono molteplici e partono dalla connessione delle cose, dalla loro rappresentabilità, dalle sensazioni segrete e dal nutrimento delle oscure conoscenze della poesia.

Paola Del Zoppo scrive:

 

«La poesia di paesaggio è in lingua tedesca una linea precisa, e frequentata, che da Annette von Droste arriva a Peter Huchel e, all’inizio del Duemila, si cristallizza nei poeti originari della ex-DDR e della metropoli berlinese, per poi declinarsi in poesia dell’antropocene e in una consapevole e intensa riflessione sulla “poesia ambientalista”. Si tratta di una poesia che è anche sempre poesia del limite e del limine, e si confronta con i “confini” dell’identità del mondo naturale e con i contorni della figura e funzione dei poeti. […] Le prime nove poesie di questa raccolta, descrivono le ambre della regione della Sambia. […] Poschmann sussume diversi giardini e parchi, evidenziando la funzione di creatore del poeta. Königsberg/ Kaliningrad è luogo di nascita di Kant, ma anche di Johann Georg Hamann, che più volte paragonò l’atto di scrittura all’atto creativo per eccellenza. Il creatore del mondo è dunque “uno scrittore”. La tensione di Hamann, tutta rivolta alla potenza del linguaggio, della poiesis, lo porta a chiedersi quale sia la relazione tra la possibilità di descrivere le “cose” (Dinge) e la loro stessa esistenza».[4]

 

E continua la studiosa:

 

«Questa concezione della poesia come potere “divino” illumina trasversalmente tutta la raccolta, anche nella sua scelta più fondante: i testi sono concepiti come complesse e talvolta caleidoscopiche immagini, che, tramite, un serrato sistema retorico e di isotopie terminologiche, riescono a superare la necessità della loro oggettivizzazione».[5]

 

La poesia di Marion è questa abissale salmodia descrittiva: sono lampi e visioni. Si accompagnano alla tumultuosa e ricolma linea oscura. Attraversando la sua oscurità emerge un prisma di luce, un rapido tocco, una visione austera, un prosimetro di cielo e rapide inquietanti di bagliori residui, per addentrarsi in spazi sconosciuti[6] (dal tremore del Baltico alle ombre infinite degli Stati Uniti e Coney Island, già attraversata dalla mentalizzazione di Ferlinghetti, fino alla Germania, alle delimitazioni dei parchi di Kyoto in Giappone e alla cifra di Basho, all’edificazione umana di Shangai), per esibire gli spazi cromatici della contemporaneità, la fertilità delle percezioni, le dinamiche dell’essere, il sublime e restituire la posizione dell’essere verso la natura:

 

«Il ramo semplice nei suoi aggettivi: oscillante, / dolce, pieno di foglie, teso nell’aria. / Sotto al ramo le coppie camminano leggendosi poesie / a vicenda dai loro telefoni; alle loro spalle / il bagliore residuo dei palchi all’aperto, una sobrietà / umida di pioggia. / Il parco inizia dai passi. A ogni sguardo lascia che l’erba si alzi, che i sentieri asfaltati vortichino, che i ponti si pieghino / ad arco. Una volta guardato, il tulipano si apre. / Le teste sbucano al di là dei cespugli, avvolte in complicate / acconciature, col corpo per alcuni secondi / formoso e verde. / Poi tacchi a spillo, maglie a crochet e lucide scarpe sintetiche, / fuoco e acciaio. Il parco è il ventre dei pensieri, e io / giardiniere di Dio, commento il fatto che ogni / generazione si coltiva o sradica o crea il suo mondo / nel proprio vagare. Del tutto immersi nei pensieri, i corpi / procedono oltre i cespugli». (Kumst).

 

Il setaccio del mondo è la prima emissione di verbalità. La poesia di Marion guarda il mondo attraverso l’indagine, la sospirata voluttà delle immagine, i paesaggi artificiali e reali, la fragile e violenta natura naturans, e lo sciabordio della lingua. Convive, dunque, in questa poesia la fenomenologia delle tenebre fluite e dei punteruoli di luce, la dissolvenza incompiuta, la trasparenza magmatica degli oggetti, il bagliore fecondo dell’Eden perduto in quasi trasparenza: «Diario di viaggio pragmatico. Un parco / senza uscita, le vie terminano sui muri dei ricchi. / È questa quell’arte che sembra essere anche natura? / Ogni foresta piena di scacciati, nostalgia dell’Eden. / Il vuoto e il suo passare. E allora parla, vuoto, / non ti vedo».

Vivere il vuoto, passare in rassegna la concrezione delle cose del mondo, la separazione, l’abbandono e la forza, i proto-luoghi, fanno della poesia di Marion Poschmann una sperdutezza sinallagmatica, : «Mi piace vedermi parte di una giostra meccanica di foglie / sul marciapiede, vedo lastre commemorative di boschi più grandi, / e alla parete il fogliame di cemento a mo’ di segnaposto, / mentre. / Mentre. Venti potenti portano il fumo / di patate arrostite, di forni a carbone, di carta vecchia».

La stratificazione messa in atto dalla poesia si compone di una ritualità oggettiva, frequenta le disposizioni delle cose nella realtà, dispone doppi movimenti e prospettive. Attraverso la visitazione fenotipica e geologica, l’antropomorfizzazione, le tracce dell’indistinto, la visualizzazione interiore, i segni rendono significanti e significati nelle arti oscure della distanza:

 

«Fila di pioppi. Sul bordo della rete metallica / il riposo diurno si modella sul fogliame. / Scure macchie di infanzia, adesso illuminate / dall’ondata di luce del campo sportivo, boschi / interni, fatti solo di folate e movimenti. Foglie. / Foglie, che anno dopo anno collezioni, / copie di circostanza della giornata, incomprensibili / negativi, compatti cumuli di affinità. Cosa / fluttua, cosa viene pesato, cosa si ammucchia. / Ma chi siamo noi, che non riusciamo a / distinguere il fogliame che ci tremula la notte / e dunque una notte è come un’altra? / Alte corone aprono una strada alla tempesta / Praticano le arti oscure della distanza. Il fogliame / fruscia, uno strato scuro che copre di sé / il mondo intero».

 

Il paesaggio della poesia diviene un passaggio di meticolosa rarefazione ma, allo stesso tempo, restituisce frammenti di stupefatta visione, di dettagliata mobilità, di fuga e, infine, di misteriosa meraviglia e di dramma, restituendo attraverso la stratificazione il gesto vivente, la sua flessibilità complessa, l’indefinito enigma di una stagione lunare:

 

«Betulle, gialle. Febbricitanti betulle. Tra loro il vento / dal circolo polare e in quel vento la miseria / del territorio. Il pensiero di pantofole. Di nuovo attivo / l’immaginario di me tra pareti. Febbre di betulle. Carelia, / terra di Siena, limone. Ciò che ondeggia già / si propaga. Betulle febbricitanti / si rimestano nel latte bollente col miele, un moto / del cucchiaio e si lasciano andare al gorgo. / Siamo noi la nebbia d’autunno, soffice e onnipresente».

 

 

[1] Poschmann M., Paesaggi in prestito. Poesie didascaliche ed elegie, a cura di Paola Del Zoppo, Del Vecchio Editore, Bracciano (Rm) 2020.

[2] Galaverni R., L’arte di accompagnare la medusa sulla terra, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 26 luglio 2020.

[3] Poschmann M., cit., p. 12.

[4] Del Zoppo P., Paesaggio in prestito, in Poschmann M., cit., p. 229.

[5] Id., cit., pp. 229-230.

[6] Paola Del Zoppo intervista Marion Poschmann, in «Insula Europea», (www.insulaeuropea.eu/2020/05/18/paola-del-zoppo-intervista-marion-poschmann/), 18 maggio 2020.

Marion Poschmann, Paesaggi in prestito. Poesie didascaliche ed elegie, a cura di Paola Del Zoppo, Del Vecchio Editore, pp. 247, Euro 14.

primacop-poschmann-scaledPoschmann M., Paesaggi in prestito. Poesie didascaliche ed elegie, a cura di Paola Del Zoppo, Del Vecchio Editore, Bracciano (Rm)2020.

Galaverni R., L’arte di accompagnare la medusa sulla terra, in “La Lettura – Corriere della Sera”, 26 luglio 2020.

Paola Del Zoppo intervista Marion Poschmann, in «Insula Europea», (www.insulaeuropea.eu/2020/05/18/paola-del-zoppo-intervista-marion-poschmann/), 18 maggio 2020.